Uno spettacolo a più voci sul pensiero e l'opera del grande scrittore francese.
All’Institut Français di Napoli, oggi Andrea Renzi porta in scena il pensiero singolarissimo di Albert Camus, con la sua riflessione sull’assurdo e la sua scrittura sospesa fra desiderio e indifferenza della natura.
Concepito da Rosario Diana, Camus 2020. Note di lavoro è il terzo capitolo di una ricerca filosofica intrecciata ai linguaggi delle arti sceniche; dopo il primo capitolo dedicato al Paradiso perduto di John Milton con Valentina Acca, dopo l’analisi delle Diramazioni da Hegel con Lino Musella, la trilogia intitolata Scene del riconoscimento si conclude con un melologo in tre quadri – per altrettante voci – in cui l’universo di Camus (morto drammaticamente in un incidente d’auto nel gennaio 1960 assieme all’amico-editore Michel Gallimard) emerge nei suoi fondamenti.
GLI SPETTACOLI
IN SCENA IN ITALIA
La scelta dei tre autori-pensatori ha origine da un saggio di Fiorinda Li Vigni, segretario generale dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, che introdurrà lo spettacolo-performance dell’8 luglio.
Sull’originale lavoro e sulla presenza di Camus nel pensiero contemporaneo abbiamo sentito l’attore Andrea Renzi, interprete in voce dell’opera.
Perché Camus?
Dal mio punto di vista Camus è uno scrittore e un pensatore che in questo momento può condurci verso una profondità e una frontalità delle domande essenziali. Ad esempio: cos'è la felicità? Per quale motivo vale la pena vivere? Come affrontare l'assurdo dell'esistenza? Lui sa cercare il senso di questi interrogativi; in maniera forse anche seriosa, ma credo che il suo essere controcorrente possa risultare coinvolgente.
Ci può raccontare la poetica di questo lavoro?
Il testo è una sorta di prisma di pensieri che mette in scena anzitutto la voce di Albert Camus, poi la voce dell'autore, cioè Rosario Diana, infine - ed è stato sorprendente nell'istante della prima lettura del copione - la voce dell'interprete e testimone di queste linee di pensiero. Cioè me stesso, proprio in prima persona. Le domande sono profondamente esistenziali, riguardano il senso del vivere, e tale dimensione lascia trasparire la complessità dell'io. Ci sentiamo unici, monolitici, nella nostra identità; invece siamo tutti composti da molte voci. In mezzo a tutto questo l'attore può fare da guida nell'esplorazione di tale molteplicità. Rileggevo negli ultimi giorni le pagine di Fernando Pessoa, le tante identità espresse nel suo "Il libro dell'inquietudine", tra storie e eteronomi. Questa è l'impostazione di Camus 2020.
Lei dialoga con una chitarra.
Sì, ed è un fatto assolutamente non secondario, visto che il nostro allestimento è in forma di melologo: accanto al copione recitato esiste il controcanto della musica composta da Rosalba Quindici ed eseguita in palcoscenico alla chitarra classica da Ruben Mattia Santorsa. Quindi il racconto - per fortuna, dico io - non si fa dominare dal senso e dal significato razionale ma parla direttamente alle nostre corde più misteriose attraverso l'incanto del suono.
Una frase del testo che ha trovato rivelatrice.
Mi ha colpito questa: "Se non sono riuscito a dire che la morte stessa e il dolore non facevano che esasperare in me questa ambizione di vivere, allora non ho detto nulla".
Come vede la situazione del teatro dopo la lunga pausa?
La risposta degli spettatori è stata generosa, con grande partecipazione agli spettacoli dal vivo. Indubbiamente è un segnale da tenere in considerazione perché ci carica di una responsabilità gioiosa. Cioè quella che nei teatri l'umano può incontrarsi, guardarsi negli occhi, ricercare una relazione vitale, concreta, del corpo, del pensiero, delle emozioni. Insieme. Questo si vede con i concerti sulle spiagge e con gli spettacoli più impegnativi in sala. In questo momento è anche un dato che prevale sul risultato cinematografico, perché la sala vive una crisi rispetto alla modalità di fruizione. Sebbene fosse cominciata già prima della pandemia ma che la pandemia senz'altro ha accelerato.
Rimarco la convinzione che quando andiamo a proporre qualcosa dal vivo dobbiamo sapere che disponiamo del tempo che lo spettatore ci sta offrendo e che quindi questo deve spingerci a lavorare con grande impegno, onestà e autenticità. Il teatro può essere anche un deposito di allegri ed emozionanti valori.
Cosa la stimola oggi nel suo mestiere?
Il mio mestiere si è molto trasformato negli anni. Più che una vocazione attoriale, che poi ho scoperto nel tempo, ho iniziato questo lavoro perché ho avuto la fortuna di incontrare - quand'ero adolescente - dei compagni di viaggio che sono stati Mario Martone, Angelo Curti, Toni Servillo, nelle due compagnie nelle quali mi sono formato: Falso Movimento e Teatri Uniti.
La dimensione dell'avere un progetto collettivo, di ensemble, è stato l'aspetto che mi ha sempre motivato maggiormente. Ora che il mio lavoro ha preso delle pieghe anche più professionali, e chissà che il termine non sia imperfetto, mi interessa mantenere vivo il rapporto con quella che è stata la mia prima fase. Facendo progetti che mi assomigliano.
Oltretutto questo mestiere resta un viaggio dentro sé stessi, attraverso il quale esprimiamo delle ambizioni, la nostra vanità. E ognuno lo coniuga secondo la sua personalità. Dopo la pandemia ho un desiderio forte di confrontarmi con ciò che mi piace, cercando di andare verso lavori nei quali mi ritrovo completamente.